OPERAI EDILI

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Eccoci, come ogni giorno, riuniti in equipe a confrontarci su come fare per funzionare al meglio. Sedie più lontane l’una dall’altra, cuori più vicini. Ciascuno dice la sua, offre un suo punto di vista, esprime dubbi, preoccupazioni, tira fuori qualche battuta per alleggerire l’intensità degli attimi di isolamento forzato che, all’unisono, viviamo tutti nel mondo intero. Mentre noi parliamo nell’intimità dell’ampia sala Impastato che ci consente di rimanere connessi mantenendo la giusta distanza, al di fuori dei confini di#potenzacittàsociale, al margine delle strade deserte, in qualche punto imprecisato intorno alle serrande chiuse ed alle finestre sbarrate, il grido muto del disagio continua ininterrotto, forse addirittura amplificato dal silenzio assordante delle città sopite. Voci stentate, graffiate, di chi rischia di rimanere abbandonato: chi ha una disabilità, chi ha una dipendenza, chi non ha assolutamente nulla, neanche un tetto dove rifugiarsi, neanche delle pareti dietro le quali difendersi dal virus.

È il grido d’aiuto degli ultimi, i dannati della società, e fra questi si distingue bene quello di chi continua a condannarsi giorno dopo giorno. Per una scelta responsabile a tutela dei ragazzi che già abbiamo in carico abbiamo convogliato tutte le nostre forze sulla struttura di Potenza, chiudendoci, per un atto d’amore verso noi stessi e gli altri, agli ingressi ed alle visite sul territorio, coltivando la risorsa che deriva dalla possibilità di ritrovarci, protetti dai nostri cancelli, dandoci del tempo per poter avere uno sguardo più profondo al nostro interno ed uno più lucido al contesto fuori da noi.

Quando abbiamo scelto la nostra mission, la cura della persona attraverso la relazione come primo ed inderogabile valore non sapevamo che saremmo stati messi così duramente alla prova. Ma non possiamo permetterci di lasciare da solo chi grida arrancando; non vogliamo lasciare soli i ragazzi del Centro Socio-Educativo di Picerno, gli Ospiti in diurna delle nostre strutture, le famiglie che aiutiamo tramite il banco alimentare. Non possiamo non aprirci alle richieste del territorio, delle carceri sovraffollate ed a rischio, dei Ser.D, sottodimensionati che non riescono a gestire il numero degli utenti. Il nuovo coronavirus ci ha tolto la normalità della quotidianità, ci ha tolto il contatto fisico, la gioia di stare all’aperto, ma non potrà mai toglierci la spinta alla vita, quella a condividerla con l’Altro, soprattutto nel momento del bisogno. Eccoci qui, quindi, chiamati ad assumerci la responsabilità delle nostre scelte e dei nostri principi.

Abbiamo discusso a lungo del significato più profondo di essere operatori sociali, delle scelte coraggiose che implica, ispirati dai medici e dagli infermieri che eroicamente, in queste ore, si mettono a rischio per prestare fede al giuramento di Ippocrate, a quel patto tra la loro professione e la collettività, al di là degli strumenti che hanno e che gli vengono dati. Molti di noi hanno dovuto e devono continuamente prendere decisioni difficili, a volte perfino rinunciare alla possibilità di stare con i propri cari. Siamo in tempi di guerra, le armi del nemico sono grandi pochi nanometri, e fanno il rumore del silenzio delle strade. Siamo in trincea mentre tutto intorno a noi viene scosso dalle fondamenta e rischia di crollare giorno dopo giorno, ora dopo ora. Era prevedibile che mentre tutto chiude, qualcosa dentro ciascuno di noi avrebbe cominciato ad aprirsi. Le insicurezze, le angosce, i vuoti, spesso tenuti sopiti dalle routine quotidiane, dalle rumorose frenesie di tutti i giorni. Avevamo messo in conto che la richiesta sarebbe salita, che le persone avrebbero cominciato ad accusare il peso della solitudine, del dover “stare” e, provando invano a fare ricorso alle vecchie modalità messe in campo in tempi di crisi, avrebbero poi cercato un aiuto esterno.

Non possiamo essere sordi a questa ricerca, a questa voce stentata che ci chiama al nostro dovere morale, sociale, professionale. È vero, non possiamo combattere insieme agli operatori sanitari degli ospedali, ma possiamo armarci di “cazzuola e caldarella” e pensare ad un piano per ricostruire e continuare a fare il nostro lavoro. È quello che intendiamo fare, e quello che chiediamo a gran voce alle istituzioni è di darcene modo al più presto. Da subito.

In tempi di guerra non servono solo soldati, servono anche operai edili che sappiano continuare a costruire, a ricostruire, a puntellare dove tutto sembra voler stramazzare al suolo. Un operatore sociale, per noi, è questo, e ci stiamo attrezzando per montare una nuova impalcatura che sorregga il peso di chi si sente sprofondare.

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