Ritmi di festa vissuti “Insieme”

Ognuno di noi ha un ritmo che condiviso “Insieme genera una splendida musica…un susseguirsi di ritmi del Prof. Apolito a Potenza Città Sociale e nella Casa dei Diritti.

… non so più agire

e prego; prego non so ben dire

chi e per cosa; ma prego:

prego (e in ciò consiste

– unica! – la mia conquista)

non, come accomoda dire

al mondo, perché Dio esiste:

ma, come uso soffrire

io, perché Dio esista.

… Sono versi di una poesia di Giorgio Caproni, “Lamento (o boria) di un preticello deriso”. Il giro poetico più alto che io conosca sugli interrogativi religiosi. Avrei voluto recitarli alla fine di quella giornata, ma mi sono tornati in mente solo ora mentre ne scrivo. Era cominciata con una conversazione telefonica: “vuole venire a presentare il suo libro qui da noi?” – “ma siete sicuri che possa offrirvi qualcosa?” – “sì” – “con “Ritmi di festa?” – “sì, o con quello che vuole lei, basta che venga da noi” – “a fare cosa, esattamente?” – “venga, venga” – “ma…” – “venga: facciamo così, a sera presenterà il suo libro alla nostra ‘Casa dei diritti’, ma prima da noi, a pranzo con i nostri ospiti, venga a fare o dire ciò che vuole, a parlare dei ritmi o di ciò che si sentirà di dire” – “d’accordo vengo”. Mi metto alla guida dell’auto e parto. È il 6 febbraio. Antropologo a domicilio. Vado in una casa di periferia. Periferia di vita sociale. Di quelle in cui stanno persone dei margini della vita sociale. In attesa di recuperare se stessi e tornare al centro. Si spera (“quanto tempo rimangono qui?” – chiederò dopo – “dipende. Dalle varie situazioni. Mesi, un anno, due…”). Cosa posso dire in una periferia della vita sociale? Funzionano là i ritmi della festa? ciò che so è che nella cosiddetta “normalità”, le persone che stanno bene insieme vanno a ritmo e condividono il tempo musicale dei loro rapporti (ma se davvero stanno bene insieme: non è mica così frequente nella cosiddetta normalità sociale): gli innamorati, gli amici veri, la mamma e il suo bambino; e le persone nelle feste, quelle vere, sentite, entusiasmanti. La bellezza di questi rapporti, di queste situazioni sta nella musicalità che esprimono. Nel ritmo condiviso. Ma cosa avviene nelle periferie della vita sociale? Là dove le persone stentano ad avere relazioni positive, oppure ci provano ma hanno storie drammatiche alle spalle, di quelle che non ti rendono sereno con gli altri e con te stesso? Sono andato in una periferia questa volta, a portare “Ritmi di festa”. Credo che sia stata la prima occasione, tra i tanti viaggi di “antropologo a domicilio”. Finalmente. Appena sono arrivato ho incontrato la coppia che gestisce questa casa, Maria Elena e Mimmo, poi c’erano Rosa e Letizia, che danno loro una mano. Avevano appena chiamato Mohamed, per gli amici Moham, lo aveva convocato un tizio che veniva dalle istituzioni, carte da firmare e avvisi di cui tener conto. Ingiunzioni forse. Però Moham ha fatto in tempo a sorridermi mentre mi stringeva la mano. E poi sono entrato con loro nella sala da pranzo, gli ospiti erano già lì, e appena mi hanno visto, mi hanno sorriso, d’un subito. Forse perché quando si mangia si è sempre un po’ allegri, chi sa, io pensavo. C’era pure un bambino tra loro, era il figlio di Maria Elena e Mimmo, e una ragazza, la figlia. Mescolati agli ospiti della casa. E c’era un uomo di oltre sessant’anni. Ma non sono solo giovani qui? No, c’è di tutto. Ci sediamo a mangiare, io mi metto in modo da osservarli. L’antropologo è una specie di pettegolo, spia la gente. Per studiare ovviamente, per capire, mica per gusto di pettegolezzo. Hanno facce che mostrano fatiche di esistenza, travagli, durezze ricevute, forse fatte. “Sai? – mi dirà Mimmo poi – tra loro c’è qualcuno che ha subito trattamenti psichiatrici”. Ma io non me n’ero accorto, non ho visto facce di detenzione, costrizione, sono sereni là, rilassati, ridono, si prendono in giro, fanno battute, mangiano, gustano. Fanno bis e tris. Sembra che stiano bene. Dopo il caffè si va fuori, in relax, c’è uno spicchio di sole in una giornata fredda. Io intanto giro per i laboratori, guidato dallo staff e da una ragazza ospite, che ne è responsabile. Trova il tempo di dirmi che è stata operata al cuore due volte in un anno. Quando si sta tanto male da decidere di farsi del male, credendo di stare in paradiso, non si avvertono i sintomi e allora un banale accidente può degenerare e portare alla catastrofe. Finalmente ci raccogliamo in auditorio. Nell’attesa che vengano tutti, Mimmo prende una chitarra e strimpella un accompagnamento per la voce della figlia adolescente, che canta una pizzica e poi la “Canzone dei briganti” di Eugenio Bennato. “Tu ci devi accompagnare con il tamburo però”, mi ordina Mimmo (sapeva di me qualcosa) e io prendo in mano la tammorra e cerco di scrostare la memoria per ritrovare il movimento. Ma dietro di noi sul palco si infila uno degli ospiti e si mette a suonare uno jambé. Ci prova per un po’, poi smette. È uscito due settimane fa dall’ospedale, per un intervento chirurgico difficile, l’asportazione di parti di pleura, è il secondo in poco tempo. Era a letto fino a pochi minuti prima, ma aveva sentito del nostro incontro ed è venuto, e là non ha resistito al nostro ritmo musicale (non smetterò mai di incantarmi se penso a questo strano fenomeno umano della jam-session: l’irresistibile attrazione per la musica degli altri, entrarci a tempo, magari solo con un piede, una mano, un dito). Si ferma dopo pochi secondi, sente dolore alla ferita, è il caso che torni in camera, dice. Intanto la musica fa da richiamo, ora sono tutti in sala. Sono arrivati anche familiari degli ospiti. Cominciamo. Ci presentiamo, i nomi, le provenienze. Le battute, le risate. Dapprincipio qualcuno rimane rigido, chiuso, sospettoso. Altri cominciano la danza della mimesi, i corpi che si imitano senza saperlo. Poi si parla, parliamo in molti e il tempo passa. È ritornato quello dello jambé, che aveva deciso di tornare in camera per il dolore alla ferita, ora è ritornato, non vuole perdersi questa occasione. Uno di loro, quello che ha più di sessant’anni, mi sta di fronte e parla lentamente, sicuro, con la saggezza dell’età, ma ascolta poi gli altri, con interesse, come di chi vuol riprendere a imparare. Passa ad un tratto tra noi un brano di Beethoven, dalla IX sinfonia, e ciascuno ci mette del suo, uno alla volta, con le mani, le braccia. Era un “gioco” che con gli studenti dell’università, a Salerno, una volta rompeva il ghiaccio: altri tempi e altra università. C’è, alla fine, nella sala, seduti in cerchio, davanti al palco colmo di strumenti musicali quasi tutti di percussioni, c’è come un’aria di domanda. A cui nessuno risponderà. Perché è una domanda informulabile. Certe volte, ai miei studenti assetati di risposte veloci, rassicuranti, che placano le ansie e le paure e fanno rimanere fermi, io dico: aspettate, non rispondete subito, fermatevi sulla domanda. Sono le domande che fanno andare avanti, non le risposte. C’è tempo per le risposte, però prima fermatevi alle domande. Magari formulatele meglio. Per esempio dico loro: se a domande pressanti vi rispondete con risposte tipo “rom”, “migrante”, “profugo”, beh, queste risposte servono a rassicurarvi, non a capire. Anzi queste risposte sono proprio le domande giuste da farvi: perché dico “rom”?, “migrante”, “profugo”? Ebbene, in quella sala dopo il nostro incontro, mentre in piedi ci salutavamo, un attimo prima di metterci in posa per la foto, aleggiava una domanda. O forse un intero grappolo di domande. Che non solo non avevano risposte, ma che persino stentavano a essere formulate. Era come un sentire la necessità di porsi domande ma non trovarle, e allora stare là in attesa che venissero loro stesse. E quelle domande che non c’erano, stavano come buchi neri nelle nostre teste, da cui poteva uscire di tutto o poteva essere risucchiato di tutto. Erano desideri di domande, nostalgie di domande, erano attese che venissero domande, come attese di un dio che venisse tra noi o che era già tra noi. In silenzio. Senza risposte rassicuranti. Sì, erano rifiuti delle risposte consuete, quotidiane, di quelle che ti tolgono le ansie e ti impediscono di aprire gli occhi, la mente, di muoverti verso dove dovremmo andare. Erano domande assenti. Poi sì, a sera sono andato alla “Casa dei diritti” a mettere in scena il monologo. Era a Picerno (già, perché solo allora le configurazioni geografiche hanno ripreso corso per me, prima, a pranzo e poi in quella sala, che era a Potenza, era stato come sedere in cerchio nel centro dell’universo, là in quella periferia di vita sociale. Nella casa dell’associazione “Insieme onlus”. “Centro terapeutico riabilitativo per le dipendenze patologiche”. Pensando a tutte le miriadi di case di periferia di vita sociale nel mondo, in cui sono accolti coloro che cercano di ritornare al centro. E per un po’ stanno al centro dell’universo. Magari senza accorgersene). E a Picerno, davanti a un nuovo pubblico, tra cui si mescolavano alcuni ospiti della casa del mattino che avevano avuto la possibilità di seguirmi, ho tenuto il monologo di “Ritmi di festa”, sì. Ma per me era come dire senza dirlo espressamente: sapete? questa faccenda dei ritmi condivisi è più importante del mio libro, di un singolo libro, di una biblioteca intera di libri. Io li ho visti oggi i ritmi, allo stato nascente, come tra mamma e neonato, quando l’uno imita l’altro per andare a tempo insieme. E questo dice molto di noi esseri umani, colti nel tempo dell’amore condiviso, quando c’è. E rende assorti, pensierosi, quasi incantati, perché non si sa, cioè non si può vedere nell’invisibile, e si aspetta qualcosa. Ma gioiosi come in festa, per il mistero delle domande che aleggiano.

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