La scorsa settimana il padre di uno dei nostri ragazzi si meravigliava del fatto che non ci fosse nessuno “a guardia” dei nostri cancelli. “Non sarebbe più sicuro”, mi ha chiesto, con un misto di disorientamento, incertezza ed una nota di preoccupazione “tenerli chiusi?”
I cancelli di Potenza Città Sociale sono e sono stati sempre aperti. Più che una regola è una visione del mondo, della vita, dell’essere umano. È la nostra visione, il mantra alla base del modello che seguiamo, il faro che ci ha sempre guidati e che non abbiamo mai abbandonato, neanche di fronte ai timori delle istituzioni e degli enti attivi nel nostro stesso campo, abituati a contesti dove è la chiusura, l’irregimentazione, fatta di protettività e controllo punitivo, ciò che consente di combattere l’abuso di sostanze e le dipendenze, o almeno di contenere, se non di rinchiudere, i danni per l’individuo e la società. All’incirca dieci anni fa cominciammo a proporre una prospettiva diametralmente opposta, che vede nell’apertura al mondo esterno, alle relazioni, all’incontro, la chiave di volta del cambiamento interno dei nostri ragazzi, come dell’essere umano in tutte le sue declinazioni, dal singolo ai gruppi, fino alle società intere. I nostri cancelli rimangono aperti a difesa della libertà, perché non c’è guarigione né cura senza di essa, senza la possibilità di sbagliare, di farsi male, in parole povere di assumersi il rischio e quindi la responsabilità delle proprie scelte, della propria identità. La libertà, intesa in questo senso, è il contrario della dipendenza e della patologia. Sono Libero, quindi Sono. Questo non è un mero aforisma, ma un’idea forte alla base della costruzione di ogni nostra azione, a qualsiasi livello. È per questo che non abbiamo mai accettato affiliazioni, sudditanze, sottomissioni, e siamo ancora qui con lo stesso spirito, lo stesso principio. I nostri cancelli sono ancora aperti. Chiuderli non vorrebbe dire solo trattenere ciò che abbiamo affinché non esca dagli eventuali recinti rigidi, in un braccio di ferro tra la spinta alla vita che coltiviamo nelle nostre strutture e la spinta alla morte che caratterizza la fuga dal contesto di cura, ma anche e soprattutto tagliare via, simbolicamente, ed anche concretamente in qualche caso, le risorse che esistono sul territorio, una chiusura all’incontro con il mondo qui fuori, l’ennesima fuga dalla realtà. Siamo coscienti che ogni apertura è un rischio, ma sappiamo anche che diventa un pericolo solo se al di qua non c’è una struttura che regge, che “mantiene”, fatta proprio di quelle idee forti che cementificano l’identità di una persona, di un gruppo, come quella di un’intera comunità. Ecco allora il motivo per cui non abbiamo mai avuto paura a dialogare con l’esterno, che può o può non condividere la nostra direzione, le nostre stesse convinzioni, i nostri stessi obiettivi. Non ci spaventa la prospettiva di confrontarci, anche con la spinta alla morte, ed utilizzare quell’energia in funzione della vita. Libertà non è poter sopravvivere da soli, ma mantenere la propria integrità nell’in-contro con l’altro.
I cancelli di Potenza Città Sociale, insomma, rimangono aperti perché una tempesta trova sempre spiragli da cui passare, ed è nella tempesta che si impara a navigare. L’ossigeno, la luce e, con essi, la vita, invece hanno bisogno di fessure ben studiate, sia per entrare che, soprattutto, per poter uscire. Laddove la chiusura nutre il buio, l’apertura è la risposta naturale della crescita.
Non è la citazione di qualche nuovo film distopico ricolmo di effetti speciali; non è l’esclamazione melodrammatica di un disilluso che legge i giornali o anche solo i titoli, ascolta le notizie o che semplicemente si guarda intorno, per quanto la conclusione sarebbe estremamente simile, in modo inquietante; né tantomeno l’urlo di battaglia del politico di turno che spera di attingere voti dall’elettorato più facile, quello degli scontenti. No.
È tutto reale, nessuna esagerazione né ideologismo. È il succo dell’affermazione di chi di pazzia se ne intende.
Stiamo parlando di Devora Kestel, il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’agenzia dell’ONU che si occupa di salute e benessere. Secondo le ricerche recenti, infatti, la depressione è in aumento, di pari passo con l’abuso di sostanze e i tentativi di suicidio. Ogni giorno siamo più patologicamente tristi, ma il dato davvero preoccupante è che lo siamo più precocemente, e per più tempo.
Cominciamo da più giovani e lo siamo più a lungo nella vecchiaia. La vita, insomma, si è allungata, il progresso scientifico fa balzi da capogiro, stiamo escogitando come affrontare l’universo aperto, inventandoci vele spaziali che navigano a velocità sempre più fotoniche, ma pare che il terreno conquistato lì su, lo stiamo perdendo qui sul pianeta terra, dentro di noi, dove le ombre, nel lento divenire del quotidiano, sono più grandi e grottesche che mai.
Nessuna notizia dalla NASA su una qualche sonda che ci aiuti ad analizzare rocce e polveri dell’interiorità, anzi, dai dati pare che la ricerca di modi che ce ne allontanano, attraverso sostanze, dipendenze e altre strategie più o meno coscienti, sia in continuo fermento. È uno dei tanti paradossi dell’era moderna.
La civiltà si racconta come orientata al successo attraverso i sorrisi nei manifesti ed alla TV, mentre i demoni dietro le luci al neon ci narrano una storia diversa.
È una storia che parla di morte e desolazione, per di più in una società in cui di morte è proibito parlare. È una parola bandita dal vocabolario, un tabù della tribù ultramoderna, perché ne viola e minaccia i presupposti. Ci ricorda della fragilità in un contesto in cui la potenza ed il potere sono parole d’ordine, ci ricorda della brevità in un’epoca che tende all’infinito, della sofferenza in un quadro di overdose di ottimismo, dell’impotenza, del limite, dell’umanità quando ci preferiremmo divinità.
Così si muore, ma lentamente, magari nascondendo i segni della necrosi in atto, spesso addirittura proprio nel tentativo di curarsi da quel senso di morte che aleggia come una nube di smog sull’imponente grattacielo del “tutto è possibile, ed anche subito”; ci si allontana dalla vita pezzo dopo pezzo, buco dopo buco, o all’improvviso, in un incidente stradale come molti giovani, quasi a voler avere la possibilità di dare la colpa ad un infausto destino.
E se fisicamente non si muore, che si anestetizzi il vuoto interno, il lutto incolmabile dell’anima, o che venga riempito di movimento ciò che, intimamente, è fermo, immobile, esanime. Internet, cellulari, frenesia, connessione continua. Tutto pur di non sentire, di non ascoltarsi, mentre il tessuto sfilacciato della comunità non offre reti di contenimento, di attutimento della caduta di valori, certezze, punti di riferimento sociali, politici e culturali.
Il “mal du siécle”, che a pensarci si riferiva al secolo scorso, ma che a quanto pare ci siamo portati oltre la soglia del 2000, prolifera ancora, spesso non visto, nei vicoli della società attuale, attecchendo fra le maglie delle coordinate spazio-temporali appena espresse e le storie personali, peculiari, irripetibili di ognuno.
Nel suo replicarsi, mutare nelle forme, sempre comunque legate a tutto ciò che riguarda l’autodistruzione del singolo e dei gruppi, ci segnala un concetto importante, una lezione di vita se vogliamo. Ci invita, cioè, a spostare ogni tanto gli occhi dalla luna, e ad osservare il dito e chi indica. Probabilmente non ci aiuterà a conoscere nuove forme di vita extraterrestre, ma ci terrà in contatto con noi stessi, e a sentirci un po’ meno vuoti, un po’ più sani di mente, un po’ meno alieni.
Malala Premio Nobel per la Pace, vittima di un attacco dei talebani e sopravvissuta a una ferita di arma da fuoco. Nel proprio Paese è considerata la più grande sostenitrice dell’istruzione femminile.
La legge 124/2017 (legge annuale per il mercato e la concorrenza) ha introdotto una nuova previsione per dare maggiore trasparenza alla destinazione delle risorse pubbliche. Ha introdotto l’obbligo, a carico dei soggetti privati (tra cui le ONLUS) di pubblicare, sui propri portali digitali o siti, le informazioni relative a sovvenzioni, contributi, incarichi retribuiti e comunque a vantaggi economici di qualunque genere incassati nell’anno 2018, superiori ai 10.00,00 euro.
Prima gli italiani”. Fino a qui tutto bene. Il problema non è l’accaduto, ma il retaggio (cfr. “L’odio” di Kassovitz).
Fino a che si antepongono gli interessi di una nazione a quelli di chi non ne fa parte, agli occhi di un italiano questo può avere un senso logico, anche da un punto di vista antropologico, che sia condivisibile o meno. Quindi ok, ascoltiamo, con la possibilità di dissentire, il “Prima gli Italiani!”. Il problema nasce nel momento in cui sorge il dubbio spontaneo: “Si, ma quali?”.
Non è una domanda da poco, e la tentazione di affrontare una dissertazione storica sulle italiche genti, sui flussi migratori e sull’antica Roma è davvero forte, ma rischierebbe di arenarsi in contrapposizioni ideologiche e frasi fatte che poco si sposano con il pragmatismo e l’ottica di semplificazione che, magari giustamente, o magari molto ingiustamente, chissà, si persegue al giorno d’oggi.
Ci si riferisce quindi non ad un problema di natura storico, genetico o di qualsiasi materia suggerita dai possibili voli pindarici a partire dall’argomento, ma ad una questione squisitamente attuale. Molti acclamano la politica discriminatoria odierna, nel senso etimologico, ovvero di discernere a chi destinare e a chi non destinare le non infinite risorse disponibili. La questione è seria ed effettivamente va affrontata, il più linearmente ed efficacemente possibile. A scuola mi hanno sempre insegnato che la soluzione dei problemi è tanto più semplice quanto più semplice risulta l’impostazione del problema stesso.
Matteo gestisce un agriturismo ed ha otto fette di torta, preparata con alcuni degli ingredienti di propria produzione e pochi altri donati da una ditta esterna. Nella sala adiacente c’erano dieci persone, ma ad un certo punto ne è entrata poco meno di un’altra (dati ISTAT). Matteo propone quindi una soluzione, vista l’evidente stato di sovrannumero e l’affollamento della sala: Dare la torta solo a chi fa parte del proprio gruppo, così entra in sala e dichiara “La cucina è chiusa. La torta è solo di quelli del mio gruppo. È finita la pacchia”, e così via.
Tutto risolto. Fino a qui tutto bene, sembra. Il vero problema, come in ogni quesito, sorge nel momento in cui bisogna definire le unità di misura e le espressioni connesse. Per esempio: qual è l’unità di misura del “mio gruppo”? Sicuramente sono escluse le poco-meno-di-una-persona che hanno invaso la sala all’ultimo. Perfetto, quindi sappiamo a cosa NON si riferisce l’espressione “mio gruppo”. Ma a cosa si riferisce?
Mentre ci si accalora sulla diabolicità e sulle tendenze sataniste dei conduttori di San Remo e sulla faziosità dei giudici di gara, che probabilmente hanno effettivamente scelto un semi-straniero per dare un messaggio politico, seguendo peraltro il modus operandi del dare messaggi, parlare, chiacchierare, il gestore dell’agriturismo (che poi è il vice-gestore) fa i fatti. Si discute del “Prima gli Italiani” su un canale e, a TV spenta, si va avanti con le autonomie. Del nord. Dall’Italia. Ecco servito l’equivalente in salsa nouvelle cuisine del secessionismo. Gli ingredienti, questa volta hanno pesi ben precisi, e seguono la tecnica della divisione nelle varie fasi della ricetta.
Prima gli Italiani, ma niente torta alle scuole del sud, anzi, più bacchettate, perché devono impegnarsi di più. Prima gli Italiani, ma una specifica parte di questi non deve più sobbarcarsi la semina nel campo comune come tutti quanti. Prima gli Italiani, ma qualcuno di questi prima di altri.un sottile scivolamento verso un’Italia che non è più una, ma unita contro lo straniero. Saremo una Patria-Famiglia, una di quelle famiglie che si riuniscono solo in occasione dei mondiali, ad urlare contro Zidane e contro le squadre avversarie, poi ognuno a casa propria, a “discriminarsi” a vicenda, sempre nel senso etimologico.
Quesito: Prima gli Italiani. Si, ma quali? Svolgimento: Abbiamo fatto l’Italia, adesso è ora di disfarla.
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