In questi ultimi mesi molto si sta parlando di Sicurezza. Ci troviamo di fronte a binomi sempre più inscindibili: Italia Sicura, Case Sicure, Scuole Sicure. Tutto molto giusto. Questo, dal punto di vista pratico, in ogni caso, si è tradotto e si sta traducendo in più controlli, più telecamere, più rigore. La linea politica e sociale è chiara e lineare: di fronte alla Paura si risponde con il Controllo. Certo, se ci si potesse soffermare, in questa ansiosa frenesia, ci si accorgerebbe che Sicurezza e Controllo non sono neanche lontanamente sinonimi, da nessun punto di vista, neanche da quello puramente lessicale. Anzi, il Controllo è compagno dell’Insicurezza, che guarda caso è proprio l’esatto contrario di Sicurezza. Siamo Insicuri, che ridotto ai minimi termini vuol dire che abbiamo poca fiducia. Sostituendo quest’espressione ai termini iniziali, il risultato è che abbiamo poca fiducia nell’Italia come “casa accogliente”, poca fiducia nelle forze dell’ordine a protezione delle nostre case, poca o nulla fiducia negli insegnanti e negli alunni, torturatori o spacciatori. La nostra risposta rimane comunque il Controllo.
Tagliare + Soffocare x Solitudine. Tagliare l’accoglienza, rendendo possibile solo quella che bada esclusivamente al guadagno; Soffocare la libertà, aggiungendo telecamere e cani laddove c’è violenza e droga, anche nella scuola; legalizzare la Solitudine. Siamo soli. Dobbiamo proteggerci da soli, vedercela da soli, crescere da soli. Se l’unione fa la forza, la solitudine ci rende vulnerabili. Insicuri appunto. + Controllo = + Insicurezza → + Insicurezza = + Controllo. Stiamo promuovendo un’Italia InSicura, delle Case InSicure, delle Scuole InSicure. Voi che ne pensate, siete “sicuri” che il Controllo sia l’unica via verso la Sicurezza? L’ardua sentenza non spetta ai posteri, ma a noi tutti. Oggi.
CASA DEI DIRITTI SI TRADUCE IN INGLESE PER PICERNO, CAPITALE DEI DIRITTI
In questi giorni, nell’ambito dell’iniziativa Capitale per un giorno, in cui Picerno è diventata Capitale dei diritti dei più deboli, Casa dei Diritti ha ospitato il Vito Marcantonio Forum da New York. Il percorso interattivo sulla Costituzione e la Giustizia si è rivestito di internazionalità dialogando in inglese con chi, dall’altro lato del mondo, non ha dimenticato le proprie radici.
___Quando si parla di Idee, di Valori condivisi, si parla la stessa lingua, anche se con due idiomi diversi. E con Vito Marcantonio, originario di Picerno, avremmo parlato la lingua di chi si schiera sempre dalla parte dei più deboli, degli esclusi, degli ultimi. Dei Diritti. Perchè Diritto vuol dire Giustizia. Non c’è l’uno senza l’altra e viceversa.___Casa dei Diritti, l’esposizione permanente a Picerno Città Sociale, incarna appieno questa filosofia, e si propone come presidio per la memoria e la riflessione in un viaggio che parte dalla fine del nazifascismo ed alla faticosa, rapida e grandiosa opera della costituzione e della giustizia italiana ed approda laddove quella giustizia è stata difesa a caro prezzo, laddove quella costituzione è stata protetta a costo della vita dalla prevaricazione dei pochi. I volti e le sagome dei “Titani” della lotta alla malavita organizzata ci guidano, attraverso le installazioni creative, nella comprensione della Mafia che, nonostante abbia, in quanto fenomeno umano, un inizio ed una fine, è ancora viva ed in piena attività, lavorando in modo più nascosto, meno appariscente, dietro le distrazioni socio-politiche attuali.
In un periodo in cui i Diritti non fanno più audience, Casa dei Diritti resta aperta, pur se poco conosciuta e sfruttata sul territorio locale, per le scuole ed i cittadini, per rifondare la cultura della Giustizia sopra quella della Legalità, del Desiderio sopra quella del Dovere, della Libertà sopra quella della sua illusione.
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IL ROUND CONTRO IL VUOTO
Da Million Dollar Baby alla Comunità Terapeutico-Riabilitativa
“Ognuno di noi è portatore di una mancanza da quando nasce.”
Caspar David Friedrich – Il viandante sul mare di nebbia – Hamburger Kunsthaal, Amburgo – clicca sull’immagine per saperne di più
È da qui che prosegue il viaggio tematico dei ragazzi nel “gruppo del Martedì”, una serie di incontri condotti dal direttore della Comunità, Mimmo Maggi, per portare la riflessione ad un livello diverso, più colloquiale, più umanistico, se vogliamo, rispetto alle altre attività svolte a Potenza Città Sociale. L’obiettivo è offrire agli ospiti l’opportunità di incuriosirsi di ciò che vedono e vivono, allenarsi al pensiero che connette, che collega l’esperienza quotidiana, che spesso scivola via lungo la frenesia di tutti i giorni, con la capacità di scendere nel profondo, nell’essenza delle cose, di sé stessi. Non è un gruppo terapeutico, ribadisce il direttore, non si entra nelle storie di ciascuno, non ci sono regole o setting pre-impostati. Gli unici requisiti sono il desiderio di ascoltare, di riflettere e, conseguentemente, la presenza fisica e “spirituale”. È necessario accogliere ed elaborare, fare propri concetti talvolta complessi ed usarli all’interno del proprio percorso personale, nel modo in cui si ritiene possibile.
Si parte da spunti apparentemente superficiali, come una frase, un passo della Bibbia, un film, e si approfondiscono alcuni aspetti, si rimescolano, si arricchiscono con parallelismi ed analogie. Oggi si partiva da Million Dollar Baby, il film di Clint Eastwood, che interpreta anche uno dei personaggi principali, con Hilary Swank e Morgan Freeman.
L’ambientazione principale è una polverosa palestra di periferia, di quelle consumate dal tempo e dall’utilizzo, che non danno l’idea di grandi pretese né aspettative. La gestisce Frankie-Eastwood, ex pugile, ora allenatore e manager, insieme a Scrap-Freeman che si prende cura della palestra, ex allievo di Frankie nonché suo unico amico, cieco da un occhio in seguito ad un incontro andato particolarmente male. Un giorno si presenta da loro Maggie-Swank, che insiste a lungo per poter essere allenata da Frank, nonostante abbia già 32 anni. Oltre ad essere un’età avanzata per cominciare a fare boxe, probabilmente è anche molto vicina a quella della figlia di Frankie, una donna di cui conosciamo solo l’avversione per le lettere che il padre le scrive con costanza, lettere che tuttavia tornano sempre indietro, mai aperte. Quando finalmente l’anziano allenatore si decide ad accogliere la giovane donna, la sottopone ad allenamenti duri ed estenuanti, che Maggie utilizzerà, insieme alla sua forza di volontà, per vincere diversi incontri, fino a gareggiare per il titolo mondiale.
È chiaro come il tema del vuoto attraversi l’intero film, ad esempio nella mancanza di una famiglia affettuosa per Maggie o nella lontananza della figlia per Frankie, uomo indurito e pieno di dubbi. È proprio su tale mancanza, tuttavia, che avviene l’incontro tra di loro. È a partire da quel vuoto che Maggie diventa “il mio tesoro” per Frankie. La giovane donna cerca un’appartenenza, una scintilla che rianimi il fuoco spento dal non essersi mai sentita amata nella sua famiglia, l’anziano burbero cerca un riscatto, una persona da proteggere e promuovere, per sanare la ferita aperta dalla rottura della relazione con una figlia, o il suo fantasma. È solo attraverso l’impegno reciproco che riescono a risollevarsi e, sostenuti anche da Scrap, a lottare per il titolo mondiale. Il prezzo da pagare sarà alto, e porterà Frankie a pentirsi di aver assecondato il desiderio di gareggiare della ragazza. Sarà Scrap a rincuorarlo, portandolo a riflettere su quanto, al di là dell’esito, le abbia offerto la possibilità di raggiungere il suo sogno più grande, di colmare la mancanza che si portava dietro.
Million Dollar Baby parla, in fondo, anche degli ospiti della comunità, anzi, di tutti noi. Nel momento stesso in cui usciamo dalla pancia di nostra madre ci separiamo per sempre dalla completezza, dalla perfezione, e veniamo messi di fronte al limite, alla mancanza. Ciascuno di noi, nessuno escluso, è chiamato nel corso della propria vita a fare i conti con quel pezzo che ci manca. È proprio la mancanza che ci spinge a dare un senso alla nostra vita, a costruire una vita piena. Quando, però, c’è una difficoltà ad alimentare la scintilla di vita quella stessa mancanza si trasforma in un vuoto incolmabile, un’angoscia che bisogna a tutti i costi riempire. Talvolta con la relazione con una persona, talvolta con particolari attività, talvolta con le sostanza, che illudono di raggiungere quella situazione idilliaca del grembo materno brutalmente preclusa. Il piacere diventa allora godimento senza limite.
Il Padre è posto a guardia di tutto questo. Non “Padre” inteso come genitore di sesso maschile, ma come modello, come funzione. Padre è tutto ciò che simbolicamente rimanda alla figura che taglia il cordone ombelicale che ci lega al materno, a quelle fantasie di fusione. Padre è Frankie, che aiuta Maggie a tagliare il filo con la sua storia di sofferenza, di cui si era nutrita fino all’incontro con l’ex-pugile; è ciò che ci strappa via dalle protesi che abbiamo costruito per avere l’illusione di poter riacquistare la completezza, la perfezione quando e come vogliamo. Tutto e subito. Padre significa “Legge”, che nulla ha a che fare con il senso giuridico del termine. Si parla di una Legge interna, “intrinseca” dell’umanità che, se tende a scomparire in quel Grembo Materno, fatto di onnipotenza, di Follia nella sua accezione più profonda di “condizione in cui tutto diviene possibile”, viene rappresentata dall’Uomo portatore del limite, della realtà. E con essi dei valori per potervi far fronte.
È interiorizzando il Padre, la “Legge”, con la fatica di un pugile che si allena, che siamo in grado di superare il nostro sogno originario di colmare il vuoto e di diventare ciò che siamo e che potremmo essere proprio attraverso la mancanza. È il piacere che coesiste e si colloca nella Legge, nella “Parola del padre” che ci permette di coltivare il desiderio di vita e di “innamorarci del limite”, abbandonare cioè la fantasia di onnipotenza, di onniscienza, in favore di ciò che possiamo e vogliamo essere.
Il problema della “dipendenza”, da questa prospettiva, non è la Morte. Si può morire anche semplicemente inciampando e finendo con la testa contro uno sgabello, per quanto le sostanze in particolare ne aumentino il rischio. Il problema della dipendenza è l’inesistenza della Vita, rifugiarsi nel pubblico, spettatori della propria esistenza, invece di combattere sul ring; nascondersi nella pancia della mamma invece di fare i conti con le proprie ferite, i propri limiti, i propri vuoti. Arrendersi.
La Comunità, fatta dai terapeuti, dagli operatori, ma anche dagli altri ospiti, si assume la responsabilità di essere Frankie e Scrap allo stesso tempo. È Frankie nel momento in cui tende alla Maggie della situazione una mano per incoraggiarla ad incanalare la scintilla di vita sopita dai vuoti vissuti, ma è anche Scrap, nel momento in cui si prende cura dei luoghi e delle persone, del funzionamento della palestra più difficile, quella della vita. La Comunità permette di fare uso di un Padre per ingerirlo al proprio interno e portarlo con sé una volta fuori dai cancelli. Alla base, tuttavia, c’è l’impegno e la fame di vita di Maggie, dell’ospite. Può accadere che oltre i confini della “Città Sociale” qualcuno muoia, questo lo si mette in conto. Ma chiunque muore, muore da guerriero, da lottatore. Muore da combattente, dopo essersi allenato in Comunità per inseguire il proprio Sogno. La sconfitta è una vittoria, molto più di quanto non lo sia una resa.
Domenica a Verona si è concluso il congresso organizzato dai movimenti per la famiglia tradizionale. Un evento che, tra le critiche ed i cortei di protesta, aveva all’ordine del giorno la necessità di affrontare temi delicati come il divorzio, l’aborto, la denatalità e le unioni civili, con particolare riferimento ad individui dello stesso sesso. Gli esponenti politici di quella che viene definita destra hanno non solo partecipato, ma ne hanno anche fortemente promosso i presupposti di base. Gli oppositori, invece, hanno tacciato l’iniziativa come medievale ed anacronistica.
È uno scandalo che al giorno d’oggi si parli di famiglia tradizionale? Nient’affatto, anzi, semmai il contrario, almeno dal mio punto di vista.
Ai confini meridionali di Potenza Città Sociale, a ridosso delle sponde del Basento, sorge la Panchina Rossa che Giovedì scorso abbiamo eretto a conclusione di un evento che aveva l’obiettivo di aprire una riflessione sulle vittime della violenza di genere. Siamo stati in tanti a soffermarci sulle disparità, sulle iniquità, sui delitti legati al genere sessuale. Uomini che odiano le donne principalmente. Abbiamo a lungo parlato delle radici della violenza, partendo da Aristofane e le sue metà della mela per arrivare ad un’ipotetica corsa dei cento metri tra uomini e donne, in cui queste ultime, alla partenza, hanno ostacoli sociali che, pur se di solito “trasparenti”, di fatto, le pongono in una situazione di svantaggio, preannunciandone l’inevitabile sconfitta. Abbiamo cercato, nel breve tempo a disposizione, di tratteggiare l’argomento sotto diversi punti di vista, da quello prettamente giuridico e legale, avvalendoci del contributo della Polizia di Stato che ci ha mostrato le campagne di sensibilizzazione contro la violenza di genere e ci ha illustrato le procedure che si attivano nel momento in cui una vittima contatta le Forze dell’Ordine, a quello psicologico, affrontando più nello specifico le radici dinamiche e culturali dell’oggettualizzazione del corpo della donna, cristallizzazione di un approccio che tende a relegarla alla sola funzione sessuale e a contrastare le spinte alla sua emancipazione, negando talvolta le conquiste degli ultimi sessant’anni.
Il retaggio ultra-conservatore alla base di questa “concezione maschilista” è esattamente l’elemento che i detrattori del Congresso sulla famiglia, organizzato nella città di Romeo e Giulietta, che di famiglia e conflitti sono, almeno da un punto di vista letterario, esperti, hanno criticato, rendendolo simbolo della loro aperta protesta. I due eventi, apparentemente, sono inconciliabili. Uno punta all’evoluzione, al cambiamento, allo stravolgimento dei tradizionali ruoli familiari, fucina delle mentalità alla base dell’analisi egemone sulla violenza di genere, l’altro considera l’allontanamento da forme e modalità tradizionali come un enorme pericolo, che i fautori suppongono alla base della forte degenerazione morale, valoriale e sociale cronologicamente successiva al periodo delle intense battaglie culturali, fra le quali si collocano anche quelle femministe, che di fatto hanno posto le basi per i grandi “sconvolgimenti” nella struttura familiare. La guerra pare assicurata, e non sembra esserci niente e nessuno che può opporvisi. Da una parte i Montecchi, dall’altra i Capuleti. Ciascuno rivendica il diritto di contrastare l’idea dell’altro, e perfino la sua espressione.
Entrambi gli schieramenti tuttavia, a guardare più attentamente, partono da un fatto ineludibile comune: la crisi della Famiglia. Uno ne misura gli effetti contando i lividi, l’altro quantizzando l’assenza di autorità e di valori. Come in ogni crisi propriamente detta c’è una fase di passaggio in cui tutto sembra crollare. Il modello prima valido di una famiglia fondata sul Potere del Padre come pilastro, sulla sua capacità di “mettere il pane in tavola”, ora non ha più senso. Se la Donna si è però in gran parte svincolata da un’identità che la voleva succube dell’Uomo, non c’è stato un passo corrispondente per quanto riguarda il nuovo tipo di Uomo, il nuovo tipo di Padre. Un modello è crollato, ma uno nuovo non è stato ancora definito con chiarezza. La violenza, al di là dei suoi connotati specifici da caso a caso, nasce e cresce oggi nel vuoto lasciato da questa transizione, come anche la paura manifestata da iniziative come il Congresso sulla Famiglia.
Accettare che vi sia un Congresso sulla Famiglia, non banalizzandone il significato a mera sfilata ideologica, per quanto è un evento che facilmente viene strumentalizzato dalle forze politiche, non vuol dire abbracciarne le soluzioni o le prese di posizione rispetto alle leggi a fondamento dell’autodeterminazione della persona. Vuol dire piuttosto dialogare con il bisogno profondo con cui ciascuna parte, anche quella del Congresso di Verona, è portatrice; vuol dire rendere virtù la convergenza sulla crisi della famiglia per intavolare una riflessione più profonda, spesso evitata: che modello di Uomo e di relazione Uomo-Donna è possibile al giorno d’oggi, considerati i cambiamenti avvenuti e quelli in atto? Finché non si potrà rispondere a tale quesito la famiglia tradizionale rimarrà nell’immaginario l’unico modello vincente, in quanto, anche a costo, talvolta, di grande sofferenza sommersa, almeno ha offerto per lunghissimo tempo certezze e solidità, al giorno d’oggi assenti a diversi livelli ed in diversi ambiti; finché non sarà possibile dare un significato alla crisi ed una direzione supportiva alla Famiglia Fragile, in quanto istituzione “a rischio”, per alcuni sarà sempre più facile rifugiarsi nel vecchio e rassicurante modello, rifuggendo da tutto ciò che rimanda alla novità, aborto e divorzio compresi, per altri, invece, sarà più naturale considerare nemico ogni legame con il passato, talvolta ostentando un’opposizione a priori; finché non sarà possibile, per l’Uomo, appropriarsi di “terreni inesplorati”, come l’emotività, l’accoglienza, l’affettuosità, in una sintesi propria ed originale, senza scimmiottare le caratteristiche del Femminile, il Maschile continuerà probabilmente a trincerarsi dietro l’unica modalità percorribile ereditata dai vecchi modelli: La violenza appunto.
Il percorso auspicato, con forti connotati relazionali, è difficile e complesso, un percorso in cui sia l’Uomo che la Donna sono chiamati a dare il proprio contributo, in cui la società intera deve impegnarsi. Finora ci si è concentrati molto sui diritti e sull’identità della Donna, sulle mancanze dell’Uomo e le iniquità del patriarcato. Il Femminismo ci ha permesso di rivoluzionare i ruoli tradizionali, asfissianti tanto per la Donna, più palesemente, quanto, nel profondo, anche per l’Uomo. Ci ha permesso di ripensare al Femminile. Ora bisogna ripensare il Maschile. In questo senso bisogna essere profondamente Maschilisti, per poter arrivare, magari, un giorno, ad un punto in cui essere Donna ed essere Uomo non sarà una contrapposizione di -ismi, ma una complementarietà.
URLANDO NEL VENTO Libera e Insieme nella
“Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime delle mafie”
La mafia uccide, il silenzio pure. Quel silenzio pesante, asfissiante, così carico che sembra perennemente sul punto di esplodere, e invece nulla lo attraversa. È lì, rancido, putrescente, come un carcassa che nutre i vermi e si disperde nel terreno. Combatterlo, sempre. È questo il senso più profondo della commemorazione del 21 Marzo organizzato da Libera, un evento itinerante, che ogni anno viene ospitato in una città diversa sul suolo italiano. Quest’anno è stata scelta Padova, e l’iniziativa ha visto il coinvolgimento non solo di tutto il Veneto, ma anche del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia, un’estesa area, in cui le mafie hanno saputo intrecciarsi con la realtà politica ed imprenditoriale del territorio, agendo, come sempre, da dietro le quinte, nascosta sotto lo strato superficiale della grande produttività locale. Da Potenza, però, non potevamo non partecipare a nostro modo. È per questo che stamattina Potenza Città Sociale si è spostata sulle sponde del Basento, in corrispondenza del ponte Musmeci, e si è unita a Libera e ad alcune scuole medie e superiori del territorio per ricordare insieme chi alla lotta alla mafia ha dato la propria vita. Non è stata una di quelle cerimonie cariche di cordoglio, in cui, a testa bassa, labbra sigillate ed occhi chiusi, si vive il proprio dolore in compagnia. Tutt’altro.
Lì, affianco al fiume che frusciava la propria presenza, all’ombra delle arcate liquide della grande struttura di cemento, c’era si commozione, ma quella colma di grinta, perfino di rabbia, affiancata dalla giovialità tipica delle scolaresche e che circola anche fra i ragazzi del nostro CSE a Picerno, presenti anche loro. A testa alta e orecchie ben aperte, condividevamo pensieri, note e parole, che rombavano attraverso le casse ad alto volume montate su uno dei costoni non distante dal corso d’acqua. Cantavamo l’impegno, urlavamo la memoria, e la voce di quasi tutti i presenti, ad una ad una, separatamente, si univa in un coro che piantava croci tutt’intorno. Era come una melodia, ed ogni suono era il nome di una delle vittime della mafia. Mille note, quasi tre quarti d’ora di canzone, adagiate sugli arpeggi di una chitarra in sottofondo. Se può sembrare difficile pensare di dover ascoltare mille nomi, viverlo lo è ancora di più. È straziante, sembrano non avere mai fine. Falcone, Borsellino, Impastato, paiono materializzarsi per un istante fra la folla, affianco ad altri sconosciuti ai più, uomini e donne, settentrionali e meridionali, italiani e stranieri a cui oggi abbiamo reso l’onore che meritano.
Leggerli, affidarli al vento, che spirava in ogni direzione, accarezzando le “pietre d’inciampo” disposte sul viale alberato, proprio come i fiori colorati lasciati poi dagli studenti sul letto del fiume, proprio come il rullo dei Tamburi dei Briganti colpiti con vigore in apertura e chiusura, è stato un po’ come lanciare pietre in uno stagno, per far sì che le onde infrangessero il muro dell’oblìo sempre in agguato, pronto ad inghiottire il ricordo di tutti quei soldati della legalità morti per noi; è stato come affermare con forza che non li lasceremo andare via in silenzio, perché il loro sacrificio è seme per i nostri fiori, la loro battaglia e le loro idee vivono attraverso di noi; è stato come fare l’appello per chi ha combattuto ed ora non c’è più, per sentire la presenza non solo di chi veniva chiamato, ma anche e soprattutto di chi chiamava. La mafia uccide, il silenzio pure. Ma il ricordo riporta in vita e l’impegno rende invincibili. Non lasciamoci soli.
Ogni gruppo ha il suo bacchettone per l’ambiente; quello che se per pura distrazione lanci una carta fuori dal finestrino passa tutto il viaggio ad inveirti contro e a spiegarti come stiamo distruggendo il nostro pianeta, con un tono di voce di diverse misure più fastidioso della sopportabilità; di quelli che pur di farli stare in silenzio faresti retromarcia in autostrada per andare a recuperare un misero rettangolo di plastica della misura di una caramella al limone, e tu che magari avevi solo voglia di qualcosa di dolce; del tipo che poi ti guarda in cagnesco e passa una giornata a borbottare, neanche avessi scaricato dei rifiuti tossici nelle falde acquifere di un’intero continente. Che globi! Io sono il bacchettone del mio, e vi assicuro che è un lavoro da matti. Gli inviti a visitare nuovi luoghi, per usare un eufemismo, è assicurato e frequente. Eleva il tutto su scala mondiale ed hai un ritratto più o meno fedele di ciò che Greta Thunberg sta facendo dall’anno scorso.
Il 15 Marzo il suo “sciopero per il futuro”, sulla falsariga dei suoi Fridays for Future, ha smobilitato centinaia di migliaia di giovani e adulti in tutto il mondo, chi nelle piazze più importanti ad urlare slogan e portare striscioni, chi da casa, davanti ad un computer, ad esprimere la sua opinione. Molte sono state anche quelle contrarie, che suonano esattamente come le risposte più o meno ricercate che ricevo quando comincio la mia crociata quasi quotidiana all’interno della mia comitiva, dalla più banale alla più intellettuale: “Hai perfettamente ragione, ma che differenza vuoi che faccia una carta in più per terra?”, “Vabbè, ma non ci sono abbastanza cestini, dovrei portarmi la spazzatura in tasca per tutti quei metri?”, “Fin quando non ci saranno piani di smaltimento di rifiuti efficientemente ed efficacemente organizzati in capo alle istituzioni, è una lotta contro i mulini a vento!” ed altre varie ed eventuali. Ho visto servizi giornalistici dedicati alla giovane attivista che mangiava cibi preconfezionati in plastica su un treno, interviste ai giovani partecipanti delle manifestazioni che non sembravano avere la minima idea di cosa fosse il buco dell’ozono, di cosa significasse “cambiamento climatico”, di come l’inquinamento influisse sulla vita degli esseri umani. Ho letto articoli fatalisti, che parlavano di come quello di Greta fosse il solito “tanto rumore per nulla”, un buco nell’acqua, che addirittura fosse un modo mediatico per distogliere l’attenzione dai famigeratissimi “problemi ben più gravi e reali”.
23 anni, poco più di quanti ne ha Greta ora, e, rimanendo così le cose, il controverso “cambiamento climatico” sarà irreversibile. Poco conta se una ragazzina di 16 anni non dimostra una rigida ed inflessibile coerenza tra idee e vivere pratico; non importa se dei ragazzi, presi dall’ansia di essere intervistati dicono cose sconnesse, o se sono francamente ignoranti sugli aspetti teorici basilari della questione; è irrilevante se effettivamente i Fridays For Future sortiranno un effetto più importante e grande della candidatura al nobel per una giovane meteora dei movimenti studenteschi. Quello che conta è la risposta che il mondo adulto può e sa dare ad una giovane generazione che si chiede che mondo gli si lascerà in eredità, o se almeno gliene verrà lasciato uno. Potremmo rispondergli che “tanto è così che va”, che “ormai non c’è più nulla da fare”, ma la brutale verità è che abbiamo operato e continuiamo ad operare una scelta tra il progresso economico smodato a tutti i costi e il prendersi cura di una Terra che ci sfama e ci nutre, ci sostiene e ci alleva. Nessuna scusa può reggere di fronte a questo. Sta a mala piena in piedi l’effettivo sforzo di alcuni (e solo alcuni) degli Stati più industrializzati di dedicare un’attenzione quantomeno formale al tema della sostenibilità ambientale, per non parlare di quei leader politici e/o economici che si deresponsabilizzano, che minimizzano, fomentando la folta schiera di “menefreghisti” che popolano ogni parte del pianeta e che traggono piacere dal criticare un’adolescente e dal trovare le falle nel suo pensiero piuttosto che analizzare cosa sarebbe o non sarebbe possibile fare. Una manifestazione come quella di Venerdì non serve ai giovani per cambiare il mondo, ma agli adulti per riflettere su di esso. Siamo tanto occupati a cercare scuse per i nostri comportamenti che non ci rendiamo conto di quanto il problema non sia un rettangolino di plastica, ma la noncuranza con cui lo lanciamo per terra, con cui abbracciamo le tesi di chi si arricchisce a spese della natura, con cui lasciamo che le politiche economiche, a partire da quelle locali, e su questo chi ha occhi per intendere, intenda, continuino a favorire multinazionali che, tanto a titolo di esempio, spargono veleno nell’aria e nel sottosuolo in cambio di petrolio, come se fosse una cosa che non ci riguarda, che non sta a noi bloccare o promuovere. La Terra, con ciò che essa ci da da mangiare, il mondo intero, il futuro, è come un vaso di creta che plasmiamo con le nostre azioni. Sia che lo si rovini con le proprie mani, sia che lo si lasci raffreddare e poi cadere senza opporre resistenza, si è artefici della sua rottura. Se non ci occupiamo del contenitore perde di valore anche il contenuto, perde di valore anche la vita stessa, perdiamo di valore anche noi. Perdiamo, perché avevamo voglia di qualcosa di dolce ma non eravamo disposti a sostenere l’impegno che questo comporta.
Perché è così difficile liberarsi da una dipendenza patologica? Liberarsi dall’eroina, dalla cocaina, dall’alcol, da un uomo che “amiamo” troppo, da una donna che ci fa impazzire, da una apparente insignificante sigaretta?
Perché non riusciamo a liberarci di un “oggetto” che ha vissuto a stretto contatto con noi, che ha vissuto “dentro” di noi per un lungo periodo di tempo? Essere lasciato da qualcosa o da qualcuno è meno doloroso che prendere una decisione rispetto a lasciare qualcosa o qualcuno/a che si “ama profondamente”.
Sapere che lei, lui, o “la cosa”, sta lì a portata di mano e basta un niente per far sì che rientri nella nostra vita e sopperisca a quella dolorosa mancanza, a quel lutto apparentemente senza fondo, è dannatamente difficile.
Diventa una impresa ardua, quasi impossibile. Un pensiero diventa granitico: come farò a sopravvivere senza di lei?
La decisione, la forza, la volontà, la vita che ci dovrebbe spingere verso la vita e non verso “la cosa” è un flebile battito da cui ripartire, è come respirare in un ambiente piccolissimo dove c’è poca aria e non sai se riuscirai a sopravvivere con quel poco, pochissimo di ossigeno. Ma perché ci sentiamo così? Perché stiamo così male quando muore qualcuno, quando un amore ci lascia? e perché se pur sapendo che quell’amore ci fa male stiamo ancora peggio nel lasciarlo andar via?
È così difficile perché decidere di lasciare un amore che si ama non è come essere lasciati da un amore che non ci ama più.
Se è difficile sopravvivere ad un amore che ci abbandona, lasciare, allontanarsi da un qualcosa o da un qualcuno dove il peso della decisione spetta a noi diventa un’impresa quasi impossibile.
Diventa impossibile lasciare andare “la cosa” sapendo che si porterà con se il “nostro senso della vita”, l’energia di quella vitalità che avevamo un tempo, l’aria che respiravamo, la possibilità dell’unione dell’uno, che si porterà con sé il mondo, perché quello che resterà saranno solo cocci, frantumi, pezzetti di carne sparpagliati senza senso e senza vita, da raccogliere e cercare di mettere insieme, pensando che sia stata la scelta migliore che uno possa aver partorito; abbandonare tutto ciò che “nutriva”la mia esistenza basandomi solo sul fatto che senza starò meglio. Starò. Starò? Starò!!!
Questi sono gli “amori” che bruciano, che bruciano la vita, che bruciano la vita fino alla morte.
Sono l’illusione marcia dell’altra metà platonica, sono il cibo che alimenta l’anoressica, sono le abbuffate bulimiche che portano al vomito della vita.
Ogni separazione, piccola o grande che sia, implica un lutto, un lavoro altamente impegnativo. È come salire da un precipizio solo con la forza delle mani, aggrappandosi alle piccole sporgenze della parete, con la forza delle tue mani e dell’incontro con “altre mani” che il mondo ti offre.
Ci vuole un tempo di lavoro lungo e doloroso. Non esiste una scalata rapida del precipizio. Questo lavoro è particolarmente doloroso perché la cosa amata si è portata via buona parte di noi, facendoci sentire completamente svuotati di energia e di vita. Solo la salita della parete e lo sforzo di tenerci aggrappati all’altro ci porterà a distanziarci sempre di più dal fondo del precipito. La missione è scalare il piano verticale della parete per arrivare al piano orizzontale della terra e ritrovare il fiato, il respiro, il battito del cuore che ci mancava. La forza che abbiamo sviluppato nella salita sarà la forza che ci salverà dalla “cosa”, perché attraverso lo sforzo dell’elaborazione del lutto è possibile recuperare quell’energia vitale che ci era stata portata via.
In questa salita fatta di sudore e di dolore esiste un frammento di luce, una sporgenza divina, un segreto nascosto; esiste la conoscenza di noi stessi, la risposta alle nostre scelte.
Esiste la pulsione vera della vita e la spinta di un desiderio di apertura al mondo per ricominciare a vivere di nuovo.
L’Associazione Insieme Onlus vi invita Venerdì 15 Marzo, alle 17.30 presso l’Aula Borsellino in Viale del Basento 102, per la presentazione del libro di Salvatore Renna, “Un Giudice Ragazzino”, romanzo grafico ispirato al Magistrato Rosario Livatino, giudice attivo nella lotta alla mafia, assassinato dalla Stidda, organizzazione mafiosa siciliana.
Qualche giorno fa abbiamo ospitato a Potenza Città Sociale un gruppo di operatori stranieri che avevano aderito ad un progetto per lo scambio di prassi, modalità e cultura nel terzo settore. Sono rimasti molto colpiti da quante attività proponevamo. Si chiedevano come fossimo giunti all’idea di realizzare nuovi oggetti creativi, restaurare tavoli, produrre miele ed olio, che mettiamo in vendita per finanziare attività utili alla comunità stessa ed al reinserimento dei ragazzi nel tessuto sociale e lavorativo esterno. Mi sono così trovato a spiegare la filosofia che ci muove e che affianca il processo costruttivo di tutti i nostri prodotti, da quando piantiamo semi nelle esistenze rese desertiche dalle sostanze e dalle dipendenze a quando siamo contenti ed orgogliosi di raccogliere i frutti, per tornarne a piantare i semi, in un circolo virtuoso che autoalimenti la spinta alla vita che tentiamo costantemente di promuovere. Certo, un seme, da solo, non è mai abbastanza. L’Associazione Insieme, in effetti, è proprio come un organismo vivente: Ha radici saldamente ancorate ai valori di cui si fa portatrice, nella lotta e nella cura per la vita su vari livelli, dall’attenzione alla singola persona ed alla sua “scintilla” interna, fino ad arrivare all’ambiente, passando per i diritti di popolazioni intere; ha un fusto resistente, tenuto insieme dai nodi stretti ma flessibili di chi spende le sue competenze ed il suo impegno per permettere alla linfa di raggiungere la chioma; ed ha foglie e frutti che si irradiano dai rami avvolti fra loro a creare trame sempre diverse. Per fare un tavolo, o un vasetto di miele, però, un seme non è abbastanza, e i nostri ragazzi alla Fattoria Sociale “Le 3 Querce” lo sanno bene. Esso necessita della continua attenzione di un’acqua che offra materie prime e vitalità alla cellulosa, della costanza di un sole che riscaldi e doni luce per la fotosintesi, di spazio e tempo per proseguire nel suo percorso di crescita. Di un terreno fecondo, ricco di quei sali minerali che costituiscono l’ossatura della vita stessa. Quando piantammo la Fattoria Sociale, ma anche quando decidemmo di arare per far posto ai germogli del Centro SocioEducativo di Picerno Città Sociale, scegliemmo con cura di scavare proprio a Picerno. E la coltura attecchì. Molto spesso ci meravigliamo della tenacia e della potenza di uno stelo che sconfigge la forza di gravità, attraversa terra e fango, può arrivare perfino a spaccare il cemento per trovare una via che raggiunga l’aria, la luce, la libertà. Il miracolo della vita lo chiamano. Eppure poco ci si interroga comunemente sull’importanza dell’humus, della composizione chimica e fisica che permette a quel seme di sbocciare e cominciare la sua grande battaglia. Per noi, che vestiamo i panni dei contadini nella nostra Fattoria, invece, è fondamentale ringraziare quel terreno, un po’ come si faceva nei vecchi riti propiziatori dimenticati. Per di più, la terra che oggi vorremmo ringraziare ha un nome, e si chiama Picerno, che ha accolto il nostro piccolo innesto e gli ha dato una sede dove gemmare. È anche grazie agli abitanti di quei luoghi se tanto i ragazzi in fattoria, quanto quelli del CSE hanno potuto sentire di trovarsi a casa loro, senza il timore di schiudersi e di lasciare che i raggi cominciassero a penetrare all’interno del calice. Nei gruppi di camminata, nella partecipazione agli eventi organizzati, nelle feste di Paese, non c’è modo di distinguere i nostri ragazzi dagli altri cittadini. Questa è la forza più grande. Le storie di vita non costituiscono un recinto che separa, ma un impalcatura su cui i viticci della relazione si arrampicano e si ricongiungono, si cercano e si intrecciano, condividendo e moltiplicando la linfa vitale. In ciascuno dei nostri prodotti, dagli ortaggi ai funghi, dal miele all’olio, una volta raffinato il proprio palato, o il proprio olfatto, ci piace immaginare di poter avvertire un pezzo di Picerno, che rivive nella cura con cui la città tratta la Fattoria e, per osmosi, nelle piante in crescita. Per fare il nostro olio, o il nostro miele ci vuole il legno degli alberi fioriti dai semi che la gente su in paese custodisce nei campi della propria ospitalità. Per fare un tavolo ci vogliono le persone giuste. A Picerno le abbiamo trovate. Grazie.
In questi giorni Potenza è continuamente attraversata dal via-vai di macchine della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza. Controlli a tappeto in tutto il capoluogo, un grande dispiegamento di risorse umane ed energie. Non stupisce, dato l’aumento dello spaccio e del consumo di eroina degli ultimi tempi. Si abbassano i prezzi, si inaspriscono le sostanze, ed il commercio di droga è sostenuto anche da una manovalanza straniera, poco inserita nel tessuto sociale ed economico, profilo perfetto per le campagne di assunzione della malavita. All’altro capo del Paese c’è chi parla di annullare il principio della modica quantità, che in sostanza discrimina, in sede di giudizio, chi si macchia di crimini legati alla detenzione ed allo spaccio di stupefacenti in base ad una soglia di quantità di sostanza venduta. Chi transita nei contesti della droga, in parole povere, è un criminale dello stesso calibro, indipendentemente da quanta “roba” gli si trova addosso. Tutto questo è indice positivo di un aumento di interesse all’argomento. Ma a cosa porta il quadro attuale? O meglio, a cosa torna?
Torniamo a più di venti anni fa, quando la dipendenza e l’abuso erano semplicemente devianze, un problema principalmente comportamentale; e a devianza si risponde con l’intransigenza della legge, la rigidità delle sbarre, la fermezza delle volanti. Un modello che ha come unica “arma” la regola, inviolabile e sacra muraglia a garanzia di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. A difesa della Porta Principale si erge il sistema di premi e punizioni, il quale, nella teoria, dando struttura solida a ciò che è carente e debole, ovvero la volontà del soggetto, rinforzerebbe la parte buona e giusta della persona e scardinerebbe ciò che è malato, marcio, deleterio.
In un periodo in cui il dialogo e gli spazi-per-pensare sono messi da parte a favore del passaggio all’azione diretta, immediata, priva di sfumature, le soluzioni ad una problematica come l’uso e l’abuso di stupefacenti, con tutto ciò che gravita attorno, sembrano rispecchiare in pieno l’impostazione ideologica, culturale e politica attuale, che predilige il principio del “tutto o niente”, del “subito o mai”, del “criminale o brava persona”, senza mediazioni, senza le “inutili” zavorre della complessità. Più controllo al posto della sensibilità, quindi, più pattuglie invece di persone per supportare, più repressione ed occhi per vigilare invece di orecchie e cuori per ascoltare. Sotto l’assedio delle sostanze, in cui ci troviamo per una serie di fattori economici, sociali e geopolitici, tra aumento del disagio e crollo dei prezzi di produzione, il rischio è che l’unica risposta sia il compattarsi dietro un pensiero di pietra che, per difendere le proprie mura, lascia inaridire i campi fuori e dentro il recinto più intimo di ciascuno.
Quando ci si chiude in difesa, tuttavia, contro questo nemico, ci si sta arrendendo alla sconfitta, si diventa passivi controllori di vite alla deriva. È un gioco a perdere, che ci solleva per un attimo dall’avvertire il disagio di una generazione che si droga di più e comincia a drogarsi più precocemente, anche in una città piccola come Potenza; un gioco che dà illusioni, grottescamente simile a ciò che ci si prefigge di combattere. Bisognerebbe invece giocare in attacco, porsi come agenti di cambiamento, accettare che il problema non è esclusivamente giuridico, ma manifestazione di una sofferenza più profonda, esito di una risposta rischiosa e spesso fatale agli eventi di un’intera esistenza. Sarebbe necessario insomma un cambio di strategia, che si avvalga della guida di chi sul territorio ci ha già vissuto e combattuto per anni, di chi si è speso nei contesti di cura reinserendo speranza, accompagnando la ripartenza di progetti di vita bloccati o gravemente danneggiati. Sostituire gli stendardi dell’irremovibilità con quelli di una com-prensione determinata, in campo aperto, ci proteggerebbe dal rischio di saccheggiare dall’interno il bene più prezioso: La persona umana, con le sue sfaccettature, i suoi errori, le sue difficoltà.
Per sciogliere i nodi è più utile una mano che ne segue il filo di una lama affilata che lo taglia.
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